La spiritualità è un bisogno dell’essere umano.
Sin dall’alba dei tempi, infatti, i nostri antenati hanno sempre cercato di dare spiegazioni al mondo e alla loro quotidianità attraverso miti, divinizzazione della natura, organizzazioni religiose più o meno organizzate e tanto altro.
Non si può negare che questa sia, da una parte, connessa con la necessità di cercare spiegazioni sul perché delle cose. È evidente che una civiltà primitiva che non aveva cognizione, ad esempio, di meteorologia, si spiegava periodi di siccità con l’ira degli dei piuttosto che con le variazioni di pressione atmosferica.
La spiegazione dei fenomeni è fondamentale perché dà senso di controllo: se io so perché succedono le cose, potrò influenzare il loro avvenire in funzione dei miei bisogni. Potrò quindi plasmare la realtà.
Allo stesso tempo, però, la spiritualità va oltre la mera spiegazione, cerca di dare non solo un perché causale degli eventi, ma anche un significato simbolico. Per la nostra psiche il simbolo è qualcosa di potentissimo perché riassume, condensa e racchiude significati enormi. Pensiamo ad esempio ai tarocchi o alle rune, metodi divinatori (e anche qui torniamo al controllo!) che attraverso pochi simboli, più o meno elaborati, racchiudono il senso dell’intero arco di vita. Questi tipi di simboli archetipici riescono a contenere la complessità della realtà in un unico significante.
Spirituale, infatti, non è cercare la connessione con la divinità, tanto meno con la divinità istituzionalizzata. Si tratta di dare una senso, che può essere anche strettamente personale, alla propria vita e al proprio viaggio attraverso di essa. Senza la dimensione spirituale la vita si riduce a una successione di giorni fini a se stessi. Con la dimensione spirituale creiamo quel filo rosso che li collega tra di loro e che ci innalza verso il nostro scopo.
Mi rendo conto che questo discorso tutto potrebbe sembrare tranne che ateo o agnostico… ma adesso arrivo al punto!
Come la maggior parte degli abitanti dell’occidente, sono cresciuta immersa nella cultura cristiana cattolica, per la quale qualsiasi cosa esuli dalla dottrina è altamente immorale.
Ricordo che quando da adolescente cercavo di spiegare a mio padre che non credevo a tutte quelle storie lui mi chiese: “Ma allora come fai ad essere una brava persona?”. E lì la miccia dell’esplosiva me quindicenne si accese. Ricordo la rabbia, la frustrazione e l’impotenza che questa domanda mi provocò. Stava dicendo che se non credevo a quelle favole sarei stata cattiva, che l’unico modo per essere una “brava persona” era piegare la mia vita a delle regole che mortificavano la mia natura, il mio corpo e la mia sessualità. Stava affermando che l’essere umano è sbagliato e va salvato da un qualcosa di superiore.
Non ci stavo.
Ho sempre creduto fermamente nei diritti umani, mi sono sempre battuta per l’uguaglianza, ho sempre cercato di fare del mio meglio per creare le condizioni affinché queste cose potessero realizzarsi, ho sempre sofferto della sofferenza altrui e mi sono sempre prodigata per aiutare i meno fortunati. Io ero già una brava persona, non avevo bisogno di abbandonare la mia natura per esserlo.
Di recente parlavo con una mia carissima amica e collega, una persona straordinariamente gentile, cattolica praticante, che mi raccontava la sua esperienza in una gruppo religioso che aiutava pazienti psichiatrici e con doppia diagnosi (ex tossicodipendenti, per i non addetti ai lavori). L’esperienza era molto interessante e aveva avuto buoni esiti terapeutici. Ad un certo punto, nel racconto, aggiunge: “è stato bellissimo perché lì poi ci siamo trovati tutti con la fede che ci accomunava e ci dava lo sprone e la forza di aiutare queste persone. Era un’energia bellissima. Senza, non credo che ce l’avremmo fatta”.
Non sono più l’esplosiva quindicenne che scoppia in insulti irripetibili.
Ho tirato un bel respiro e le ho fatto notare che io fede non ne ho, ma mi conosce e sa che non mi serve certo quella per aiutare il prossimo (ad esempio i miei pazienti) o lavorare in sinergia con altre persone per creare qualcosa di grande (ho lavorato anche io in comunità psichiatriche). Trovo mortificante e svalutante per l’essere umano dare per assunto che senza la fede non abbia la capacità di andare oltre il proprio egoismo e tornaconto personale, piuttosto credo in un’umanità che si può evolvere nell’apertura mentale, nell’accettazione del diverso e nel confronto alla pari senza necessità di prevaricazione.
Mi viene in mente Erich Fromm e la sua distinzione tra religione autoritaria e religione umanistica.
La prima si fonda sul controllo esercitato sulle persone da un potere più alto che richiede obbedienza e devozione assoluta. In questa forma di religiosità l’uomo è visto sempre come difettoso e il suo rapporto con il divino ha lo scopo di fargli superare le proprie meschinità. La persona devota in questi casi vive il sentimento religioso con senso di colpa e dolore.
La religione umanistica è invece centrata sull’uomo, in essa può trovare quelle risorse adatte a comprendere meglio la sua natura e le sue relazioni ed è spinto a mettere a frutto la sua capacità di amare e di essere solidale. In questo senso l’esperienza religiosa può diventare esperienza di unità con il Tutto: la virtù da esercitare non è più l’obbedienza ma l'auto-realizzazione. Il sentimento prevalente di chi vive questa forma di religiosità è la gioia.
Proprio a partire da questa distinzione, oggi si usa operazionalizzare il termine religione come la componente istituzionale e dottrinale delle credenze, che si reifica in un sistema fisso di idee e obblighi ideologici e il termine spiritualità come la parte più soggettiva, libera e volta all’auto-realizzazione, l’emotività, l’interiorità e la non sistematicità. Quindi le due dimensioni sono viste in termini bipolari: spiritualità vs religione; individuo vs istituzione.
Ovviamente non è escluso che una persona appartenente a una religione istituzionalizzata possa avere elasticità mentale e viverla in modo spirituale, l’importante è tenere a mente che i due concetti non sono assolutamente sovrapponibili o intercambiabili come sinonimi.
Diverse osservazioni psicologiche hanno studiato la differenza tra la religione e la spiritualità arrivando alla conclusione che le persone che seguono dogmi, che vivono nel senso di colpa, nella mortificazione delle pulsioni, nella convinzione di essere ontologicamente sbagliate, hanno qualità di vita nettamente inferiori, maggior rischio di sviluppare disturbi mentali, età media più bassa.
Le persone che, invece, cercano l’auto-realizzazione, un significato soggettivo della vita e assecondano il piacere traendone pieno godimento, hanno livelli di salute mentale e fisica più alti, minori livelli di ansia e aspettativa maggiore di vita.
Tutto questo ci porta alla conclusione che la spiritualità personale, intima e autentica dell’individuo è un bisogno e una risorsa squisitamente umana che migliora la qualità di vita degli individui e nulla ha a che vedere con l’istituzionalizzazione della stessa, che porta a dogmi, castighi e repressioni con conseguente diminuzione della qualità della vita.
I rituali, i simboli e i sentimenti di comunione sono insiti nella natura della nostra specie e non appannaggio di esseri presumibilmente superiori. Credo sia fondamentale riappropriarci di ciò che è nostro e combattere l’idea comune che senza un dio non siamo capaci di fare del bene.
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